Le automobili avranno tutti e cinque i sensi come l’uomo grazie ai sensori

17 Luglio 2017

Un importante contributo nello sviluppo dei “sensi” delle nostre automobili arriverà proprio dai sensori che equipaggiano i nostri veicoli. Infatti come leggiamo su un interessantissimo articolo de la Repubblica.it nel mondo delle automobili si attende davvero una rivoluzione intelligente in cui miliardi di sensori interagiranno per darci la sensazione di aver a che fare con un qualcosa di vivo!

 “I sensori
– secondo Marco Ferraresi di STMicroelectronicspossono ormai riprodurre con grandissima fedeltà i cinque sensi dell’uomo.  La vera rivoluzione consiste nel fatto che, diversamente dagli anni ’90, la dimensione, il prezzo e la precisione dei sensori si sono modificati in modo decisivo”.
E ancora si modificheranno. Il sistema gps che oggi ciascuno di noi utilizza sull’automobile ha un margine di errore di circa 4 metri. “Quello che utilizzeranno le auto a guida autonoma dovrà avere un margine di errore massimo di 10 centimetri”, quaranta volte di meno. Massima precisione ma anche minimo ingombro: “I primi airbag avevano sensori inerziali molto costosi, grandi decine di centimetri quadrati. Oggi i sensori degli airbag costano un dollaro e hanno una superficie di 30 millimetri quadrati”.

I sensori per l’auto di nuova generazione presenti nelle automobili, chiamati comunemente anche  Mems (Micro electromechanical systems) sono impiantati su silicio e sono inseriti sulla lamiera dell’auto. Lo stesso accade per i sensori di pressione e di temperatura sui motori degli aerei, come quelli di General Electric che ormai comunicano alla casa madre i loro dati di funzionamento in tempo reale. Si stima che la  crescita del volume di fatturato legato ai soli Mems nel 2016 sarà del 4,3 per cento sul 2015 a 2,8 miliardi di dollari, e arriverà a 3,2 miliardi nel 2022. Non solo auto, comunque. L’invasione dei sensori interesserà presto tutti i campi della produzione e della ricerca.

Paola Tiberto, responsabile del programma di nanomagnetismo dell’Inrim, l’Istituto nazionale di ricerca metrologica, cita testualmente: ” i sensori basati sul magnetismo sono ormai applicati in diversi campi. Da tempo sono sperimentate le applicazioni della casa intelligente, l’abitazione che è in grado di decidere da sola quando aprire le finestre, quando accendere la caldaia o l’aria condizionata. Ma le prospettive più interessanti sono quelle nel settore della biomedicina: “Con la possibilità di miniaturizzare i componenti di metallo  è stata aperta la strada ai farmaci intelligenti, che, opportunamente guidati dal magnetismo, vanno ad agire sulle parti malate che ne hanno necessità”.

Farmaci destinati a precise parti del corpo, utilizzati solo nella misura necessaria e con bersagli mirati. Non è l’unica possibile applicazione dei nanosensori magnetici. L’altro campo è quello della sicurezza alimentare: “Stiamo studiando con alcune società del settore la possibilità di utilizzare i sensori magnetici per individuare eventuali metalli inquinanti nei prodotti commestibili “. Il procedimento è analogo a quello utilizzato, ormai su larga scala, nella depurazione delle acque dai residui metallici.

Dunque il prossimo futuro sarà dei sensori e delle nanotecnologie. Ed in questo le aziende italiane possono giocarsi davvero una grande opportunità di business. Infatti in Italia vi è anche St microelectronics, una delle più attive, anche se con dimensioni molto lontane da quelle di colossi come Bosch, Denso, Delphi, solo per restare nell’automotive. Tra quindici anni il settore dei sensori e quello collegato dell’Internet delle cose (Iot, internet of things) varranno un punto del pil in Italia. Sarà praticamente obbligatorio seguire l’esempio tedesco: il governo di Berlino ha già riunito lo scorso anno un pool di esperti e aziende per decidere gli investimenti sui prodotti e la produzione intelligente. Anche perché, secondo gli esperti di Cisco, la rivoluzione di internet delle cose rappresenta solo un passo verso la rivoluzione successiva, quella dell’internet di tutto (internet of everything), un mondo totalmente interconnesso. Scenario fantascientifico in cui potrebbe essere collegato circa un miliardo di miliardi di oggetti. “L’industria italiana, soprattutto nel Nord-Ovest, è particolarmente attrezzata per competere in questo settore”, dice Gianfranco Carbonato, presidente di Confindustria Piemonte. La presenza di una forte industria manifatturiera e di importanti centri di ricerca, come i politecnici di Milano e Torino, favorisce la nascita di start-up con idee competitive. Il problema è trasformare quelle idee in un business con capitali adeguati alla competizione. Quando accade, i risultati sono importanti.

Il Politecnico di Torino collabora con Avio Aero per la produzione di parti di motori d’aereo utilizzando la stampa 3D. Un’esperienza che la proprietà della società, gli americani di General Electric, considera “di grande rilievo innovativo”. Ma gran parte delle applicazioni dell’internet delle cose italiano sono molto meno sperimentali. Riguardano, secondo una ricerca del Politecnico di Milano, le auto, sempre più collegate con gps che forniscono i dati alle società di assicurazione, i contatori del gas, sempre più spesso in comunicazione con le aziende fornitrici da remoto, e naturalmente la rete degli smartphone. L’Unione Europea segnala che ci sono comunque settori meno connessi di altri, come l’edilizia e l’agricoltura. In attesa della rivoluzione che verrà, e che certamente è destinata a modificare radicalmente la nostra vita quotidiana, ci sono due nodi di fondo da sciogliere: quello degli standard e quello della condivisione dei dati. “Il problema dello standard – dice Paola Tiberto – è particolarmente importante per alcune applicazioni, come quelle legate al campo biomedico “. Si tratta in sostanza di definire unità di misura uguali per tutti per consentire ai sensori di comunicare dati comparabili tra loro. Il nodo della condivisione dei dati è, se possibile, ancora più arduo da sciogliere. I manager dell’internet delle cose non fanno mistero del fatto che la vera ricchezza legata alla nuova rivoluzione è proprio la raccolta dei dati. Possedere miliardi di informazioni sui comportamenti degli oggetti e, soprattutto, delle persone che li utilizzano, significa poter decidere, ad esempio, in quali aree concentrare gli investimenti. I dati sui percorsi degli automobilisti, o quelli forniti dai sensori nei centri commerciali sulle scelte del pubblico tra gli scaffali, possono diventare una miniera d’oro. Contemporaneamente, mano a mano che aumenterà la quantità di informazioni raccolte, sarà sempre più difficile tutelare la riservatezza dei dati sensibili. “Noi raccogliamo le informazioni per i nostri clienti e solo per loro”, spiegavano nelle scorse settimane i manager di General Electric. Nel caso della società di Cincinnati, i dati riguardano il funzionamento dei 34 mila motori d’aereo che ogni istante circolano nel mondo. Non si tratta di dati personali e il problema non si pone. Ma quando si cambia settore merceologico e si utilizzano dati sulle scelte del pubblico, il discorso si fa più delicato. Anche se, probabilmente, nel nuovo mondo dominato dall’internet delle cose, nella società degli open data dove tutti condividono le conoscenze, anche l’attuale concetto di privacy sarà destinato a mutare radicalmente.